Un flusso illimitato di news

Cercando su Google Play mi sono imbattuto in PressReader, una app che mi permetterebbe di ottenere “un flusso illimitato di news sulla mia pagina personale”.

Anche no, grazie.

Non ho tempo e soprattutto non ho voglia di dover buttare un’occhiata a un flusso illimitato di news, tipo Fantozzi che deve decidere per chi votare.

E’ un ritorno ai tempi in cui i giornali, senza un brand e indistinti, venivano venduti per strada dagli strilloni più bravi e che avevano il titolo più sensazionale.

So di non essere molto 2.0 (LOL), ma voglio che sia un giornale fatto da persone di cui mi fido a sorbirsi un flusso illimitato di news prima di decidere quelle di cui parlare.

E no, il mio social network non può fare quel lavoro. Ci sono persone che seguo volentieri, ma hanno anche loro sia altre cose da fare, sia tare personali come le mie.

E tanto meno lo può fare un algoritmo che mi fa vedere, delle notizie diffuse dai miei contatti, solo quelle che pensano che gradirò, o che mi faranno lasciare un commento.

Facebook mi sta usando — ci sta usando — esattamente come i siti di dating usano i propri iscritti: per tenerci sul sito o riportare sul sito chi non è più attivo.

Invece di diminuire il tempo che perdo e migliorare il rapporto signal-to-noise, sia Facebook, sia i siti di dating fanno l’esatto opposto perché a loro conviene così.

In principio furono i blog

In principio furono i blog, che diedero a chiunque una voce perché non fosse più vero che Freedom of the press is guaranteed only to those who own one (A.J. Liebling).

Ma ben presto ci fu chi fu prima sorpreso e poi cercò di approfittare del fatto di essere molto letto. Per non parlare di chi volle a tutti i costi essere molto letto.

Non hai nulla da dire? Non importa. Se sei fra i più letti, è ipso facto come se avessi qualcosa da dire. O almeno prima da scambiare per un tramezzino e poi da vendere.

Con le classifiche dei blog, che sono un po’ come le classifiche di chi è il miglior pornoattore dell’isolato, e con i network di blog tematici fu l’inizio della fine.

Scrivi il più possibile, e fai scrivere il più possibile a due Euro il pezzo, che così per Google diventiamo più importanti del New York Times. Ci puoi fare un business.

Poi arrivarono i social network

In MySpace non c’era, per quel poco che mi ricordo, una gara a chi ce l’aveva più lungo. Con Facebook, e ancor più con Twitter e con Instagram, è un tracollo.

L’unica cosa che conta è quante persone, vere o bot poco importa, ti seguono. Il fatto di avere qualcosa da dire diventa del tutto secondario. Sono seguito, ergo sum.

Le fake news arrivano da lontano. Arrivano da quando si inizia a scrivere non perché si vuole raccontare qualcosa, ma perché si pensa che quel qualcosa avrà un pubblico.

Ora abbiamo degli asocial media in cui usiamo un nome vero ma una maschera falsa, e che ci usano solo per tenerci sempre sul sito e non per aiutarci a filtrare le notizie.

Se devo dirti la verità, il giorno in cui Internet sarà solo un tubo per far passare la televisione inizia a sembrarmi un miglioramento rispetto a dove siamo oggi.

Cosa dovrebbero fare i giornali

Una stampa libera, indipendente e di qualità, quale non abbiamo mai avuto in Italia, è fondamentale per la democrazia, che pure non abbiamo mai avuto in Italia: il regime partitocratico è solo una mera, per quanto benvenuta, assenza di olio di ricino.

Cosa dovrebbero fare i giornali — parliamo de Il Fatto Quotidiano, che la sopravvivenza degli altri a me interessa di meno — per sopravvivere e anzi avere successo?

1. Non buttare via la carta!

Per prima cosa, rendersi conto che ogni lettore sulla carta rende molti più soldi di un lettore sul web, e quindi comportarsi di conseguenza: pensarci non due ma duecento volte prima di fare la cosa ovvia (e sbagliata) e dismettere la carta. Al contrario, fare di tutto perché possa esserci a lungo una versione di carta, magari con meno pagine, e magari con un numero minore di pubblicità ma che verranno vendute a un prezzo superiore. Che è più o meno quello che sta succedendo con la televisione, tra l’altro.

2. Capire a cosa serve la carta

Per seconda cosa, capire che web e carta sono due prodotti che possono e devono aiutarsi, ma che sono totalmente diversi. Sulla carta vanno i commenti ragionati e intelligenti delle grandi firme. In un mondo in cui ognuno ha sia un proprio giornale, fatto di quello che passa su Facebook o in altri feedreader, sia un proprio palinsesto dei programmi in televisione o su Netflix o su YouTube, un giornale di livello deve ambire a far passare sulla carta le due o tre polemiche di cui tutti poi parleranno al lavoro.

3. Capire a cosa serve il web

Per terza cosa, capire che sul web si possono pubblicare tante cose, dalle notizie dell’ultimo minuto ai video al meteo ai programmi dei cinema se vendi i biglietti, fino ai servizi speciali sulle WAGS, se proprio non se ne riesce a fare a meno. Ma capire anche che il web è fondamentale per aiutare il giornale a capire quali sono le cose che interessano ai lettori e alle quali magari il Direttore aveva inizialmente pensato di dare poco peso, per fare in modo di riuscire a coprire quelle notizie prima e meglio degli altri.

4. Capire come fare soldi

Per quarta cosa, questo giornale dovrà se non stampare soldi come una volta, almeno stare in piedi. Altrimenti, addio indipendenza. Ci sono parti del giornale che possiamo passare a pagamento sul web? Oppure, ne creiamo? Per il resto, come si può usare il web per tutelare il valore del proprio prodotto sulla carta, dove la pubblicità sarà anche in crisi ma c’è meno competizione, e per far sì che la parte di web non (eventualmente) a pagamento renda un po’ di più dal punto di vista pubblicitario?

Per oggi, direi che ci possiamo fermare qui. Feedback molto gradito, come al solito.

20 anni di web in 6 righe

Siamo passati da inutili portali con notizie di basso livello scritte da giornalisti strapagati solo perché sapevano pasticciare un po’ con il computer e inutili banner venduti a peso d’oro (fino a quando ci si è accorti che non servivano a nulla) a inutili social network in cui facciamo noi il lavoro, gratis, litigando su calcio, società, politica e altro con persone che più o meno conosciamo e inutili posizioni pubblicitarie che servono soprattutto a far migliorare le inutili statistiche della nostra azienda su questi stessi social network.

Il web? Un canale per la tivù

Il web, questa meravigliosa (supposta) rivoluzione che ha creato un consumatore diverso (forse fino a quando era online il 10% della popolazione: si chiama segmento alto, ovvero coloro che sanno leggere e scrivere) e che ci ha dato i “prosumer” (come fare senza?) e ci ha dilettato (per modo di dire) con l’importanza dei Social Media (…) e delle “conversazioni con i consumatori” (Oh, yeah!) sta inevitabilmente finendo per diventare un prodotto di massa come tutti gli altri, esattamente come è successo ai blue jeans, che negli anni ’60 erano da ribelli (vedi Easy Rider) e ora sono firmati e in alcuni casi pure coi diamanti.

In altre parole, e per dirla con grande poesia: il capitalismo mangia (e caga) tutto.

Il web, come ho cercato di raccontarti nel mio Ebook, è diventato uno strumento senz’anima del peggior direct marketing possibile, agli stessi livelli se non peggio dei venditori di pentole, materassi, gioielli in sconto e coltelli che tagliano anche l’acciaio che vedi in tivù quando arriva l’ora del porno (e a volte anche il pomeriggio). E questo, ironia della sorte, è successo proprio mentre la televisione, o almeno una certa televisione, ha invece elevato i propri standard, al punto che è in grado di farsi pagare direttamente dai clienti: negli USA la pubblicità vale oggi solo la metà degli incassi delle Tv.

A questo punto, il web è o monnezza gratis, tipo la roba di cui riempiamo le nostre vite sul grande sito blu, oppure, con YouTube o Netflix, uno dei canali, anche se assolutamente di terzo piano, per la diffusione di contenuti video prodotti dalla e per la televisione. Altro che “la tv è morta”, come si sente dire da quelli che ci raccontano che l’importante è “avere relazioni con i consumatori”. Quando il 78% della banda viene usata dai video, eppure il tempo speso a guardare video online è ancora pochissimo rispetto a quello passato davanti alla televisione (slide 6), sembra essere la Tv ad aver sbaragliato il web, e non il contrario.