New Media e Disintermediazione

Dot-coma
” … gli è tutto sbagliato, tutto da rifare …” – Gino Bartali
—-

La parola disintermediazione è stata usata – a sproposito – dai
sostenitori dell’e-commerce, in particolare da tutti coloro che hanno
voluto provare a mettere in piedi un servizio ex novo con un proprio
magazzino. A sproposito perché costoro vendevano prodotti altrui ed il
loro non è stato che un tentativo di diventare dei nuovi intermediari di
cui troppo spesso nessuno sentiva il bisogno.

Allora, niente disintermediazione? Au contraire. Il fatto è che, molto
semplicemente, vi sarà disintermediazione solo dove gli intermediari non
portano valore sufficiente a giustificare la loro presenza e i loro
costi. I negozi fisici – e anche alcuni negozi di e-commerce –
prosperano anche se sono degli intermediari perché portano valore e
rispondono a delle esigenze importanti per i clienti.

In altri campi sembra che non sia così. La RIAA continua a sostenere che
le case discografiche devono mantenere alti i costi dei cd perché devono
pagare tutte le attività di scouting e di marketing, tutte le persone
che stanno dietro e che svolgono una qualche funzione nella cosiddetta
“catena del valore”. Per tutta risposta, i loro clienti scaricano musica
gratis.

Le Major non si accorgono o non vogliono accorgersi che a nessuno
interessa né la (loro) catena del valore, né pagare gli stipendi a
persone il cui obiettivo è condizionare i gusti degli ascoltatori e
decidere a tavolino chi deve diventare una star. I cd costano troppo, e
non siamo più disposti a pagare perché costoro ci aiutino, bontà loro, a
scoprire la nuova boy-band o la nuova Britney Spears.

Altre situazioni in cui possiamo disintermediare? E se finalmente
disintermediassimo il più intermediato di tutti i rapporti, quello fra
clienti ed aziende? Qual è la vera promessa di Internet, se non di dare
finalmente la possibilità alle aziende di parlare direttamente con i
propri clienti? Su Internet, il mio sito aziendale può – anzi, deve! –
diventare esso stesso destinazione.

Perché comprare pubblicità quando posso parlare in prima persona? Perché
affidare il mio messaggio alla pubblicità e non al mio sito? Perché non
sono capace di essere onesto ed interessante, ad esempio – al punto che
nessuno rimane a lungo sulle mie noiose pagine e nessuno vuole ricevere
la mia newsletter. Neanche se può vincere un premio.

No, questo non vuole essere un altro attacco contro la pubblicità.
Dire che “la pubblicità su Internet non funziona” è un po’ troppo di
moda – e non si capisce neppure bene cosa voglia dire. Per chi non
funziona? Per chi la compra o per chi la vende? Non funziona mai? Per
nessun obiettivo? Con nessun pubblico? Indipendentemente dal prezzo a
cui la si compra? Davvero?

Più semplicemente, la pubblicità non è magica e non può certo coprire
tutte le magagne e risolvere tutti i problemi, né quelli che riguardano
il prodotto o i servizi offerti, né tantomeno quelli che riguardano un
sito Internet che assomiglia troppo spesso ad una deludente brochure
patinata scritta in corporatese e per il quale niente e nessuno può
sperare di creare interesse.

Non solo: quella che oggi sembra una possibilità (poco sfruttata) di
parlare direttamente coi propri clienti, domani potrebbe essere una
strada obbligata perché potrebbe diventare molto difficile o forse
addirittura impossibile fare pubblicità su larga scala come si è da
sempre abituati a fare. Vediamo perchè.

New Media

Si è fatto un gran parlare, in questi anni, di New Media. Il Web è una
rivoluzione perché è roba tecnologica, database, grafica, flash. Oppure:
il Web è una rivoluzione perché posso bruciare 80 milioni di dollari per
creare un giornale online, Salon, il cui unico pregio è di essere trendy
e di sinistra, ammesso e non concesso che ciò sia un pregio.

No, non è così. Il Web è una rivoluzione per la semplicità con cui
chiunque – non solo chi riesce a trovare dei finanziatori così poco
avveduti – può pubblicare ciò che vuole online. Tanto per rendere un po’
l’idea, vi ricordo che fu giustamente considerato rivoluzionario il
fatto che, con l’introduzione della stampa, chiunque potesse leggere la
Bibbia. Blogger è Gutenberg al cubo.

Prima dell’avvento del Web, le cose erano relativamente semplici. Creo
dei contenuti vagamente interessanti – oppure, spazzatura di cui la
gente sembra essere felice di riempire la propria vita – e poi (s)vendo
questi ascoltatori (spesso a carissimo prezzo, a dire il vero) a chi
inserisce pubblicità poco interessanti. Tanto, lo fanno tutti.

Poi arriva Internet. Vagamente interessante non basta più, perché adesso
i canali sono infiniti. Con i blog, chiunque può scrivere. Accanto
all’inevitabile spazzatura che peraltro sembra imperare nei media
tradizionali, ci saranno delle autentiche gemme che non hanno speranza
altrove perché nessun editore “serio” e “professionale” che ha
un’audience li pubblicherebbe mai.

Finalmente, un po’ tutti trovano contenuti interessanti. Il “pubblico” –
un pubblico che a dir la verità è sempre meno pubblico e sempre più
co-attore – si disperde. Sempre meno programmi “blockbuster” in grado di
catturare uno “share” enorme di Internauti, pochi o nessun equivalente
del SuperBowl, delle partite della Nazionale, dell’ultima puntata del
Grande Fratello.

Piuttosto, un Web atomizzato, senza più molti spazi dove si radunano
grandi masse di persone, comodi bersagli per chi vuole andare a
“colpire” il “segmento target di riferimento” con i propri
importantissimi messaggi pubblicitari. Forse siamo al punto in cui o si
impara ad essere interessanti, oppure si è condannati all’oblio.
Questo articolo è stato pubblicato su Punto-Informatico.