Capitolo 5 – Ecommerce!

Capitolo 5 – Ecommerce!

Iniziamo dal nome che è stato dato al fenomeno: Ecommerce, o commercio elettronico. A mio avviso è fuorviante e ha contribuito a creare non pochi problemi. Siamo su Internet, il medium più caldo e umano di tutti i tempi. Quindi… come sarà il commercio su Internet? Automatizzato – tranne Zivago! – elettronico e freddo. Basta dotarsi di un bel server sicuro per processare gli ordini, di un costoso software di personalizzazione e fare una bella campagna di branding e poi ci si può rilassare come Paperon de’ Paperoni al dolce suono dei dollari che arrivano in cassa. Forse no.

Forse questa è una tendenza soprattutto americana, ma a me sembra che in tanti abbiano sperato che e-commerce volesse dire letteralmente commercio elettronico, senza quell’elemento antipatico e poco redditizio che sono i rapporti umani che, da sempre, sono parte integrante del commercio. Antipatico per il big business, intendo. Invece, è un dato di fatto che il successo di Amazon [1], di eBay [2] o di Esperya [3] in Italia è dovuto in larghissima parte al lato umano e sociale del commercio.

Cos’altro c’è che non va col commercio elettronico? La solita modestia da New Economy, la convinzione che con Internet cambia tutto e che si è quindi autorizzati a spendere soldi di marketing in maniera dissennata, l’idea che si può vendere di tutto via Internet e la previsione che si sarebbe riusciti a cambiare le abitudini della gente in un niente e che si sarebbe venduto tanto, tantissimo.

Ma quanto pensavano di vendere? Quante confezioni di cibo per cani o per gatti devi riuscire a vendere per giustificare un investimento di 66 milioni di dollari come quello di Petopia.com? E che dire dei 96 milioni di dollari di Petsmart.com (smart?), i 97 milioni di Petstore.com, o, infine, i 117 milioni di dollari fra soldi di VC e IPO di Pets.com? [4]

Per forza che poi compri pubblicità al SuperBowl spendendo 1 milione di dollari per uno spot da 30 secondi. Se ci pensi bene, è quasi razionale. Da un lato devi bruciare soldi, tanti soldi – e devi bruciarli in fretta. Dall’altro, se investi 100 milioni di dollari in una società del genere è chiaro che devi riuscire a vendere a TUTTI gli americani che hanno un cane o un gatto.

O forse a tutti gli americani che hanno un televisore – cioè a tutti. Se alcuni non hanno Internet, si attrezzeranno. E se non hanno un cane o un gatto, beh, perché non se lo comprano? Forza, abbiate fede nel marketing: possiamo convincere la gente a fare qualunque cosa. Forza, non c’è un minuto da perdere, compriamo dell’altra pubblicità in televisione!

CHL
Eravamo quattro amici al bar, che volevano cambiare il mondo… Tante idee che poi finiscono male iniziano così: quattro amici al bar, una birra, un’altra birra, un’altra birra ancora, poi un’idea che cambierà il mondo, spesso un’idea così intelligente che la capiscono solo loro. Poi tanti soldi da parte dei Venture Capitalist e via alle danze fino al giorno della chiusura.

La storia di CHL è diversa. Quattro amici di Firenze hanno una buona idea: il miglior pc è quello che non c’è. Così, nel 1993 si iniziano ad assemblare componenti per vendere pc su ordinazione. [5] Nel 1994 decidono di allargare il loro raggio di azione al resto del Paese vendendo a distanza sfruttando le BBS. In seguito, lo sbarco su Internet, la rete dei Poppit, l’accordo con Mail Boxes.

Poi arriva la New Economy.

A novembre 1999 Schroder Ventures European Fund entra in CHL, a giugno 2000 la società viene quotata al Nuovo Mercato. CHL inizia a raccontare in giro di essere un vortal [6] high tech, inizia a vendere pubblicità sul proprio sito e ad offrire la possibilità di inviare SMS gratis per attrarre traffico. Quasi non bastasse, si inizia a parlare di e-commerce col cellulare. Brutto segno.

I risultati sono anche peggio. Oltre 10 milioni di Euro di perdite nel terzo quarto del 2002 su un fatturato di meno di 8 milioni di Euro parlano da soli. [7] Se aggiungiamo che il fatturato è in netto calo rispetto all’anno precedente, il futuro non sembra roseo. Dopo esser stati salvati dal fallimento da Banca Intesa a gennaio 2002, CHL ha lanciato un nuovo grido d’allarme a settembre 2002. [8]

Ma come esserne sorpresi, dopo aver letto il prospetto di quotazione [9] di CHL? Va bene che erano i tempi della New Economy, ma le previsioni per arrivare al pareggio nel 2003 erano davvero molto fantasiose: si parlava infatti di 29 milioni di navigatori in Italia, 320 milioni di pagine viste mensili, 5 milioni di iscritti alla community ed un fatturato di ben 1300 miliardi di lire!

Certo, e magari l’uomo arriverà finalmente sulla Luna in bicicletta! La realtà è che 29 milioni di navigatori in Italia non li raggiungiamo neanche contando i materassini gonfiabili da spiaggia, 320 milioni di pagine viste al mese le fa solo Virgilio, gli iscritti alla community per ora sono 800,000 e il fatturato del 2002 sarà forse di 50 milioni di Euro, ovvero 100 miliardi di lire – non 1300!

I numeri contenuti nel prospetto informativo non hanno nessun senso. Ma con dei numeri realistici non avrebbero mai potuto andare in Borsa. La vendita di PC via Internet può anche essere un bel business, ma non certo un business che giustifichi una quotazione in Borsa. [10] Una volta promessi quei numeri, devono provarci e iniziano a spendere miliardi in marketing in modo dissennato.

In televisione, con una pubblicità con una specie di feto in una specie di lavatrice. L’idea era: è nato l’e-commerce! O qualcosa del genere. [11] Nessuno capisce la pubblicità, e probabilmente nessuno di voi la ricorda. In compenso, CHL riceve numerose lettere di protesta da parte di associazioni cattoliche e di tutela della vita. Esattamente il tipo di attenzione che cercavano, immagino.

Ovviamente, CHL spende alla grande anche sulla carta stampata. Non contenti, si distinguono per la pubblicità più stupida alla quale io riesca a pensare per una società di e-commerce che vende computer: la pubblicità allo stadio. Sì, quella lungo il rettangolo di gioco e sotto le curve, di fianco a Coca-Cola. Per forza, anche CHL deve diventare un grande brand. La prossima volta, magari.

Flashmall
Ottobre 1999: la metropolitana di Milano è tappezzata di belle pubblicità bianche e rosse con un sacchetto della spesa che sorride. Però, mi dico, è arrivato l’e-commerce in Italia! [12] E’ arrivato e fa sul serio: 90 dipendenti, 50.000 prodotti in vendita, 40.000 metri cubi di spazio dedicato, “uno dei più importanti asset logistici di proprietà di aziende del settore e-commerce a livello europeo”. [13]

Ok, fantastico. Ma ha senso un investimento di queste dimensioni per un Paese come l’Italia? [14] Una volta creata una struttura del genere bisogna pompare col marketing e sperare che la gente inizi ad acquistare. Fra le altre cose, Flashmall offre un mega buono-sconto di lire 200.000 sugli acquisti di importo superiore a 400.000 lire. Una promozione molto New Economy, devo dire. [15]

Il fatturato cresce, ma certamente cresce molto meno del previsto. Si dice che la qualità del servizio fosse ottima, forse anche perché hanno creato una struttura in grado di trattare più ordini di quelli che ricevono. Poi la Borsa crolla, niente IPO, il mega-investimento [16] fatto non paga, le banche non ci stanno più e va a finire che si chiude. Una conclusione tanto prevedibile da essere fin banale.

Zivago.com
L’Amazon italiano. Yeah, dream on! Quando fu proposto ad Amazon di rilevare la società italiana, Zivago faceva circa 200 ordini al giorno, poca cosa rispetto ad Amazon UK o ad Amazon.de. [17] Non solo: nel 2000 Zivago ha perso 12 miliardi su un fatturato di 3,5 miliardi. Com’è possibile?

Vi racconto un segreto: Zivago non era l’Amazon italiana. Zivago era l’eBay italiana – una società senza magazzino. Con una sola, piccola differenza, ovvero che, al contrario di eBay, Zivago deve ovviamente occuparsi di procurarsi la merce per poi spedirla ai clienti. Dunque: ordine via Internet, l’ordine viene stampato su un pezzo di carta, un fattorino va in motorino ai magazzini di Feltrinelli, ritira il libro, lo porta al centro di smistamento di Zivago dove viene impacchettato e infine spedito. Geniale, vero? In compenso, erano pronti con il WAP per accettare ordini via cellulare… [18]

LetsBuyIt.com
E-commerce? Molto di più, questi volevano cambiare il mondo. Il mitico sito svedese con le formichine propugna un modo nuovo e rivoluzionario di comprare online, l’acquisto collettivo. Davvero? E come funziona? Una specie di televendita telematica, con LetsBuyIt nella parte dell’intermediario che riesce, almeno in teoria, a spuntare un ottimo prezzo per tutti.

Dunque: LetsBuyIt mette in vendita un meraviglioso set di pentole al prezzo di 100, giurando però che il prezzo può scendere fino a 80 se arrivano tanti ordini, e addirittura fino a 60 se ne arrivano tantissimi. Un prodotto simile posso comprarlo per 70 in un negozio, dove posso anche vederlo, toccarlo e decidere di comprarlo subito per un prezzo chiaro e concordato. [19]

Se invece non ho problemi a comprare il prodotto senza vederlo, in TV me lo offrono a 50 € ma ovviamente solo se sono uno dei veloci e fortunati primi 100 che chiamano! Stranamente, questo nuovo modo di fare acquisti non decolla, al punto che LetsBuyIt decide di concentrarsi solo sui mercati di Francia, UK, Germania e Svezia. Vi prego, non disturbateli che devono concentrarsi…

A conferma della bontà dell’idea, negli Stati Uniti va ancora peggio. Mercata.com del co-fondatore di Microsoft Paul Allen chiude dopo aver bruciato la bellezza di 89 milioni di dollari. E vai!

TouchItaly.com
“Il più bel viaggio nello stile di vita italiano” [20]. Così si presentava TouchItaly. Un viaggio durato molto poco, a dire il vero. Secondo quanto riporta Cww.it [21], TouchItaly ha battuto un record di velocità: ha aperto e chiuso in soli 6 mesi. E’ stato un bel viaggio? Non si direbbe: sempre nello stesso articolo si parla anche di straordinari non pagati. Un flop senza stile, insomma.

Dopo il mega-flop di Boo.com [22], il 30 novembre 2001 stranamente chiude anche TouchItaly. Ma che strano, chissà come mai la gente non vuol comprare prodotti di lusso – a prezzo pieno, ovviamente – online. Eppure, il target è quello giusto, no? Benestanti, con carta di credito etc… Faccio una domanda anch’io, se permettete: collegate il cervello ogni tanto?

Avete mai visto i patiti – o i malati, a seconda dei punti di vista – dello shopping in giro a Milano o a Roma, pieni di borse griffate cariche di prodotti costosi? Ma perché lo fanno? Non è scomodo? Non è meglio ordinare da casa? E-commerce! Bravi. Non vi è mai saltato in testa che a questa gente PIACE andare a fare shopping e spendere e spandere? No, eh?

TouchItaly era finanziato da Diego Della Valle e Luca Cordero di Montezemolo. Si dice che abbia potuto contare su un investimento di ben 40 milioni di Euro. L’obiettivo era ambizioso: conquistare Italia e Stati Uniti, poi Europa e Asia. Ça va sans dire, anche TouchItaly avrebbe dovuto quotarsi in Borsa. Il fatturato prometteva bene: 40 milioni al mese. Di lire, però. Peccato. [23]

note al Capitolo 5

[1] Per un ottimo saggio su Amazon, si veda ad esempio l’ottimo blog di Giuseppe Caravita, http://blogs.it/0100206/categories/magazzino/11.Amazon.htm

[2] Il fondatore di eBay Pierre Omidyar non ha mai amato i siti che consideravano i propri visitatori “just eyeballs and wallets” e ha cercato di costruire un sito che fosse prima di tutto una comunità.

[3] I forum di Esperya erano una delle cose più belle che io abbia visto su Internet. Poi, dopo aver mandato via il fondatore Antonio Tombolini, il Gruppo L’Espresso ha pensato bene di eliminare anche i forum. Complimenti.

[4] Si veda F’d Companies, pagina 17

[5] Si veda l’ottimo saggio di Gaetana Ragusa ne Il Campanile e la Rete, pagine 181-204

[6] Dopo i primi segnali che la pubblicità sui portali tradizionali, poi chiamati orizzontali, non funzionava poi così bene, i soliti bene informati ed esperti di Internet hanno iniziato a parlare dei portali verticali, vertical portals oppure vortals, come del nuovo Shangri-là… Ovviamente, è stato un altro buco nell’acqua. Per i vortal, si veda anche il capitolo 7 di questo lavoro.

[7] Si veda http://www.chl.it/w3s/B6E6w8Z9j6jVS)PsUAL6Dg__?document?wpb_getbinary?11458799?file.pdf

[8] Si veda il loro comunicato stampa del 6 settembre 2002. CHL.it, sezione investor relations.

[9] Si veda ftp://ftp.chl.it/Doc/prospettochl.pdf

[10] Bow.it, ad esempio, è un ottimo negozio di e-commerce che vende hardware. Lanciato a gennaio 2001, Bow.it ha chiuso addirittura il primissimo anno di attività con un leggero utile di bilancio, e chiuderà il 2002 con buoni utili ed un fatturato di 6 o 7 milioni di Euro. Sono ottimi numeri, ma chiaramente non numeri tali da giustificare una quotazione in Borsa…

[11] Lo spot incriminato era incentrato su un feto ripreso nel suo comodo, caldo e confortevole ambiente di sviluppo. Già, nell’utero. Una vocina da bimbo diceva… c’e’ un mondo tutto nuovo…..dove la tecnologia e’ alla portata di tutti….. Esatto: questo mondo nuovo era www.chl.it che per realizzare questo spot ingaggò una societa’ inglese e fece costruire il robot del feto a carissimo prezzo. Stime attendibili parlano di una spesa totale di circa 25 miliardi di vecchie lirette fra realizzazione dello spot e costo dei passaggi in tv. Soldi ben spesi, non c’è dubbio.

[12] Per me l’e-commerce era (è) solo Amazon dove posso comprare libri in inglese in modo molto più veloce, comodo, simpatico ed economico di quanto non potrei fare andando in libreria. Non sono un grande appassionato di computer e ammetto che ai tempi non conoscevo CHL del tutto.

[13] Si veda http://www.prignano.it/fm/barabinoxflashmall.pdf . Che sia un asset e non una liability, è tutto da vedere. Amazon, ad esempio, ha rischiato di essere strozzata dai propri investimenti in strutture per la distribuzione. Figuriamoci quindi cosa può succedere – e succede, ovviamente – in un mercato ai tempi totalmente acerbo come quello italiano.

[14] Nulla di nuovo, ma l’Italia è un Paese dove le vendite via catalogo non sono mai andate molto bene, dove vi è un’infinità di negozi, dove vi è una bassa cultura informatica, dove l’uso della carta di credito è poco diffuso e dove, in generale, la gente non si fida molto a comprare a distanza.

[15] Due problemi. Primo, il costo di acquisizione di un nuovo cliente è altissimo. Secondo, le truffe. Flashmall chiude con 170.000 utenti registrati e 100.000 clienti che avevano effettuato almeno un acquisto. Il rapporto fra clienti e utenti registrati è a mio avviso insolitamente alto, e potrebbe benissimo indicare che in molti hanno fatto un ordine col proprio nome, uno con quello della mamma, uno con il nome del fratello e magari anche un ordine col nome di un caro estinto. Conosco personalmente gente che ha approfittato un po’ troppo di questa promozione.

[16] Ho avuto il piacere di scambiare qualche email con il fondatore di Flashmall, Giovanni Prignano il quale mi ha detto che il progetto originario di Flashmall parlava di 120 miliardi da investire in un quinquennio. Dopo due anni di lavoro, un investimento di circa 30 miliardi e un passivo da coprire di circa 16 miliardi, le banche (Efibanca e soprattutto SanPaolo IMI) hanno preferito far fallire la società invece di provare a sostenere un progetto industriale serio invece che solo una speculazione da quotare in Borsa. Per la posizione del fondatore Giovanni Prignano, si veda http://www.prignano.it/flashmall.htm

[17] Si veda Bidone.com, pagine 49-54

[18] Così il fattorino può starsene al bar in attesa degli ordini, immagino.

[19] A peggiorare le cose, molti siti Internet vendono a prezzi molto bassi nel tentativo di crearsi una clientela, e il risparmio che posso ottenere con LetsBuyIt rimane troppo spesso solo teorico.

[20] Si veda http://www.equest.it/cont/020cas/0106/1900/index.asp

[21] Si veda http://www.cww.it/jumpNews.asp?idNews=7593 (solo per abbonati)

[22] Una società svedese che ha bruciato centinaia di milioni di Euro senza di fatto neanche partire, Boo.com è forse il flop più famoso di sempre, un autentico prodigio della New Economy

[23] Ma allora non si riesce proprio a vendere prodotti di lusso via Internet? Usando la testa, forse sì. Prendiamo ad esempio Yoox.com. Yoox vende prodotti che non trovi nei negozi, ovvero le collezioni dell’anno passato. Yoox vende a metà prezzo. Ma non lo grida ai quattro venti. Anzi, al contrario, sostiene che la moda dell’anno scorso è più cool, e ha un certo tocco di vintage. Risultato: Yoox riesce a far felici tutti. Sia gli stilisti, che hanno trovato un modo comodo, serio e ben organizzato di vendere le passate collezioni alla luce del sole e senza rovinare il loro brand, sia i clienti, felici di aver trovato un negozio di e-commerce che funziona. Yoox a mio avviso è il più grande successo Internet italiano. A luglio 2002, la società ha ottenuto altri 6,6 milioni di Euro di finanziamento per espandersi negli Stati Uniti ed in Giappone.