Capitolo 1 – Internet e la Pubblicità
Perché parlare della pubblicità? Sia perché è un dato di fatto che tante, tantissime delle dot-com andate a gambe all’aria speravano di far soldi vendendo banner, sia perché nel – o per! – magnificare il futuro della pubblicità su Internet si sono dette [1] – e fatte! [2] – cose così ridicole che sembrano quasi inventate. Parliamone, allora.
La pubblicità su Internet non funziona. Anzi: non funziona più. “I banner non funzionano più”, come mi ha detto uno dei capoccia del marketing di E-family [3] a luglio 2001. Chissà dove l’avrà letto. Su Wired? Su Business 2.0? Dico sul serio: cosa ne sa lui, lui che ha fatto marketing in TV, sui quotidiani e sponsorizzando la squadra di basket di Treviso, lui che mi ha raccontato con orgoglio di aver speso 10 miliardi (o erano 10 milioni di Euro? – poco importa) in marketing.
La pubblicità su Internet non funziona? Se sei una società Internet, è comunque sempre meglio che fare pubblicità offline. La pubblicità su Internet non funziona? Diciamo che non è più cool, una dimensione molto importante anche questa in un Paese di modaioli come l’Italia. La pubblicità su Internet non funziona? Due anni fa erano felicissimi di comprare banner a 60 lire l’uno. Oggi che i banner costano un ventesimo di quel prezzo, preferiscono fare pubblicità sui quotidiani.
A prezzo pieno, ovviamente.
“La pubblicità su Internet non funziona” è un’affermazione strana anche per altri motivi. Sembra ad esempio dare ad intendere che offline la pubblicità funzioni bene, il che chiaramente non è. Fosse vero, che bisogno mai ci sarebbe di farne sempre di più, e di farla sempre più aggressiva e sempre più mascherata da entertainment?
La verità è che il mondo è saturo di pubblicità, e che in un mondo saturo di pubblicità bisogna urlare sempre di più per farsi sentire. E’ una lotta impari: meno la pubblicità funziona, più urlo. Ma più urliamo, io e gli altri, meno ciascun singolo messaggio funzionerà. Ergo, dobbiamo urlare di più. In continuazione. Almeno fino a quando ci sono soldi da buttar via.
La prova del nove: cosa si fa non appena arriva un momento di crisi? Si taglia la pubblicità. Un atteggiamento irresponsabile, dicono stracciandosi le vesti le agenzie di pubblicità dando un consiglio che come ben potete immaginare è assolutamente disinteressato. Concordo, è davvero irresponsabile: io non aspetterei certo una crisi per tagliare la gran maggior parte della pubblicità.
Poi, quando le cose si rimettono per il meglio, si torna a spendere, forse perché si spera che il responsabile marketing inizi a fare altro oltre ad ammorbare tutti con le sue stupende presentazioni in Powerpoint. Se spende dei soldi, almeno poi si eserciterà un po’ con Excel a fare dei report…
La pubblicità su Internet non funziona? Non è vero, funziona molto bene per lo scopo per il quale è nata. Il banner nasce fondamentalmente per dare visibilità alle dot-com che stanno spuntando come funghi e che hanno bisogno di farsi vedere. Questo è un punto importante: i banner servono a farsi vedere [4], non a fare risultati. [5]
Un po’ come i cartelloni pubblicitari che affollano la Highway 101 che attraversa la Silicon Valley da nord a sud, i banner servono soprattutto a farsi vedere. A farsi vedere dai Venture Capitalist a cui chiedere un altro round di finanziamento, a gonfiare l’ego dei nuovi CEO, a spaventare i competitor meno avveduti e, più tardi, a preparare il terreno per una ricca IPO. Non a fare risultati.
La domanda è forte, l’offerta ancora debole. I prezzi salgono. Ben presto si iniziano a fare proiezioni di crescita assolutamente fantastiche per la pubblicità su Internet. Ecco nuove start-up di tutti i tipi e di tutte le fogge, da chi offre nuovi servizi gratuiti perché spera un giorno di poter poi vendere pubblicità, fino ai progetti di e-commerce più strani ed improbabili. [6]
Il sistema sembra funzionare così bene che le aziende vere, quelle offline, iniziano da un lato a preoccuparsi, dall’altro a interessarsi alla cosa: se è davvero il futuro, anche loro vogliono fare pubblicità coi banner. Si affacciano verso questo nuovo mondo e generalmente vengono trattati male, dinosauri Old Economy che non sono altro. Trattati male e ripuliti per bene.
Chi vende pubblicità su Internet sa di essere sulla barca giusta, sa benissimo che il futuro è dalla sua. Sono una setta di specialisti, parlano un linguaggio da iniziati, sono bravi a confondere le acque e vendono spazzatura a peso d’oro. [7] Un giorno rimpiangeranno di aver avuto un atteggiamento da avvoltoi, ma mai pensare al futuro, quando stai cavalcando un’onda così meravigliosa!
In preda all’euforia più totale ed assoluta, qualcuno addirittura inizia a dire che su Internet si possono tracciare i risultati della pubblicità. Grave errore. Nel bel mondo della pubblicità si è sempre ammesso con grande sportività che il 50% della pubblicità fosse inutile, salvo poi dire che non si può sapere quale 50%. Quindi, continua a spendere.
Su Internet invece posso scoprire quale 50% è inutile. Anzi, se solo mi interessasse indagare un po’, scoprirei che è probabilmente l’80% della pubblicità ad essere inutile. Ma non interessa a nessuno. L’unica cosa importante è spendere. Tanto, e il più in fretta possibile. Se spendo tanto, gli investitori sono contenti. Se spendo tanto, è un chiaro segno che sono predestinato al successo. [8]
In effetti, per un bel po’ lo schema piramidale sembra funzionare a meraviglia: sono tutti contenti, vanno tutti in Borsa, diventano tutti ricchi. La piramide della New Economy vede i Venture Capitalist come i faraoni, seguiti dai CEO e dal management e poi dai lavoratori che ormai si sentono co-proprietari delle loro aziende perché in possesso delle tanto agognate stock option.
Magie della New Economy, per la prima volta nella storia guadagnano anche i servi della gleba, visto che nascono addirittura dei servizi che pagano i navigatori perché si sorbiscano la pubblicità, si iscrivano ai nuovi servizi e passino online il più tempo possibile. Volevano gonfiare le statistiche in modo onesto, i dilettanti. Mica come Worldcom… [9]
Guadagnano tutti, allora? Non proprio. Nella realtà, quasi nessuna delle mitiche dot-com guadagna, e la gran maggior parte ha invece i conti spaventosamente in rosso. E allora? Chi paga? La Borsa. Queste società in rosso vengono quotate in Borsa, gli analisti finanziari sono tutti molto ottimisti sui profitti – futuri, ovviamente! – e il valore del titolo si impenna.
I Venture Capitalist fanno affari d’oro scaricando in Borsa delle autentiche dot-bomb [10] senza capo né coda che non faranno mai profitti e per un po’ anche chi compra i titoli è felicissimo. Tutto va bene, tutti diventano più ricchi. A differenza dei normali schemi piramidali, qui sembrano davvero guadagnare tutti. Citius, Altius, Fortius! – altro che le Olimpiadi, è la New Economy!
Poi qualcuno a Wall Street decide che l’ora della ricreazione è durata fin troppo a lungo e inizia il crollo di tutte queste tigri di carta con i bilanci in rosso. Se la Borsa va male, i Venture Capitalist non sono più interessati ad investire. Basta Venture Capital, basta nuove società, basta guadagni facili per chi ha già una presenza consolidata sul Web e vende pubblicità ai nuovi arrivati.
Il 2001 è un anno nero in Italia, il 2002 anche e il futuro non promette nulla di buono. Molto semplicemente, è passato e non tornerà mai più il momento d’oro iniziale nel quale Internet era nuovo, vi era poco spazio e il panorama era pieno di start-up stra-piene di soldi e che volevano comprare pubblicità a qualunque prezzo. Ormai siamo in una situazione molto diversa, in una situazione dove su Internet c’è più spazio che soldi per ricoprirlo di pubblicità.
Di conseguenza, i prezzi cadono, e oggi la pubblicità viene venduta, quando va bene, a un ventesimo del prezzo dei tempi della Gold Economy. In tanti sbandierano una teoria: prima o poi assisteremo a un processo di consolidamento, dicono speranzosi. Come è successo in altri settori, soli i forti sopravviveranno. Con meno siti, il prezzo della pubblicità tornerà a salire, e chi sarà sopravvissuto alla crisi inizierà finalmente a fare profitti.
Ognuno è libero di illudersi come meglio crede, ma temo che le cose non stiano proprio così. In primo luogo, ciò che conta non è il numero di siti, ma lo spazio totale sul quale verrà spalmata la pubblicità. Nel nostro caso, il numero di pagine viste complessive che non solo è in continuo ed inarrestabile aumento, ma che aumenta molto più velocemente del totale della spesa pubblicitaria su Internet.
In secondo luogo, questo non è un settore come gli altri. Su Internet la barriera all’entrata è molto bassa, ragion per cui se un giorno qualcuno riuscisse a guadagnare vendendo banner, tanti nuovi piccoli e grandi attori potrebbero decidere di ributtarsi su Internet, fino a tornare al disequilibrio di oggi che è con tutta probabilità un vero e proprio disequilibrio naturale.
Insomma, anche se ci sono alcune eccezioni [11] che vale la pena di tenere in considerazione, la regola è che su Internet non si guadagna vendendo pubblicità. [12]
note al Capitolo 1
[1] Mi riferisco a tutti i discorsi sulla targettizzazione che avrebbe creato spazi pubblicitari perfetti che avrebbero portato risultati di vendita eccezionali. L’idea, in soldoni, era questa: “tracciamo” così bene le tue abitudini da capire che preferisci le mutande azzurre a quelle bianche. Non solo: saremo anche in grado di capire quando sei nella “fase di acquisto” e quindi intenzionato a comprare delle mutande. A quel punto, ti mettiamo un bel banner di MutandeOnline.com sotto gli occhi, ed il gioco è fatto! Questa è un’idea ridicola di Internet come un ambiente di tipo “push” che considera i navigatori solo come “eyeballs and wallets”, come disse Pierre Omidyar di eBay.
[2] Penso alla pubblicità in TV dei portali, da IOL a Tiscali a Virgilio fino, ancor peggio, a MSN che ha investito 1 milione di euro in pubblicità nel 2002… Ma tale e tanta era la fede nel futuro immaginifico della pubblicità su Internet che molte società hanno fatto pubblicità in TV per farsi conoscere e poter poi vendere pubblicità!
[3] E-family.it, un geniale progetto di home banking e shopping del gruppo BNL.
[4] Visibilità, non risultati e certamente non “branding”. E’ ridicolo pensare che si possa “costruire” un brand solo con la pubblicità. E ancora più ridicolo pensare di poterlo fare in questo modo in un posto come Internet.
[5] In un momento in cui l’unica cosa che conta è apparire, i risultati sono molto Old Economy.
[6] Fra i progetti più geniali Made in USA ricordiamo Furniture.com per i mobili, DrKoop.com per le medicine, Webvan.com per la spesa direttamente a casa e Pets.com per il cibo per cani e gatti..
[7] Ai tempi della Gold Economy si parlava di 30 Euro CPM come ridere. Oggi 1 Euro CPM?
[8] Forse è un po’ esagerato tirare in ballo L’Etica Protestante e lo Spirito del Capitalismo di Max Weber. O forse invece no.
[9] WorldCom è accusata di aver sistematicamente gonfiato i propri dati sul traffico sulla Rete.
[10] Dot-bomb: società Internet senza capo né coda che è inevitabilmente destinata ad esplodere.
[11] Chi vende pubblicità sui motori di ricerca : Google, Overture, Espotting etc.
[12] Nota bene: Yahoo! è l’unico portale che vi è riuscito – e solo a periodi alterni. Per la cronaca, Yahoo! ha fatto segnare ottimi profitti di 28,9 milioni di dollari ne l terzo quarto del 2002. Ma i ricavi di Yahoo! arrivano sempre meno dalla pubblicità e sempre più dal search con Overture e dai servizi a pagamento.